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Il maschile (non è) inclusivo

Le parole sono una responsabilità: non descrivono solo ciò che pensiamo, ma plasmano pian piano una cultura che può produrre cambiamento, nel bene e nel male. Influenzano ciò che pensiamo e penseremo.  È per questo che si continua a lottare a suon di asterischi e simboli fonetici che non avevano mai goduto di tanta inarrestabile popolarità.

Cambiando le parole, quindi, possiamo cambiare la realtà. Una delle reminiscenze che mi porto dietro dai corsi di linguistica è che “a un vuoto lessicale, ne corrisponde uno culturale”: se non c’è una parola per definirla, quella cosa non esiste. Quando, ai tempi di Alma Sabatini, “sindachessa” indicava la moglie del sindaco, non c’era confusione: le donne che esercitavano quella funzione non esistevano.

La femminilizzazione delle cariche è forse la declinazione più comune con cui si discute di sessismo nella lingua italiana, si parla così tanto della cacofonia di ministra che spesso ci sfugge come ancora oggi, quasi in ogni dove, ci si rivolge alle moltitudini miste con il maschile. È ancora del tutto normale, soprattutto nel linguaggio burocratico-amministrativo, utilizzare il maschile (che siano candidati, avversari, o quant’altro) per rivolgersi a un gruppo di persone di cui non si conosce l’identità di genere. Questo maschile non è “neutro” né “inclusivo”, ma “sovraesteso”. Come afferma la sociolinguista Vera Gheno, il maschile sovraesteso è “usato solo per tradizione, perché la nostra è una lingua androcentrica”.

Perché? Perché è comodo, perché si è sempre fatto così, perché tanto si capisce.

Sono spesso molti uomini (e diverse donne) a difendere questa pratica, ed è del tutto normale, dal momento che non sono gli uomini a risentirne. È proprio a loro che ci si rivolge: loro non ricevono alcun disservizio linguistico. Ma l’inclusività sta proprio nel vedere le cose da un’altra prospettiva, spesso dalla prospettiva delle persone meno rappresentate. Perché sì, sono (anche) le donne a non essere rappresentate quando si utilizza questa strategia linguistica.

Partendo dalle “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua” di Alma Sabatini (1987) si è fatta moltissima strada, grazie a linguiste e linguisti che hanno contribuito al dibattito italiano sulla questione. Ed è di questa evoluzione che dobbiamo fare tesoro. Non tanto criticare i comportamenti linguistici adottati finora o appellarsi al fatto che l’accesso delle donne alle cariche prestigiose dovrebbe essere più urgente che non sentirsi chiamare “medica” o “architetta”, ma riconoscere la consapevolezza maturata – quella che stiamo maturando insieme – per una rivoluzione inclusiva sul piano linguistico. È necessario comprendere che la lingua altro non è che uno strumento, una convenzione, in mano nostra, e decidere di intervenire a beneficio di una moltitudine più ampia, più inclusa, più rappresentata. Perché finché qualcosa non si nomina non esiste.

Ma quindi, concretamente, cosa possiamo fare? Ci sono moltissime strategie per evitare il maschile sovraesteso e in moltissimi casi una breve riformulazione è tutto ciò che serve: dallo sdoppiamento che accosta la forma maschile a quella femminile (i candidati e le candidate), a riformulazioni impersonali (le persone che si sono candidate) fino al più innovativo uso dello schwa (ə candidatə). Per approfondire ulteriori strategie ed esempi vi consigliamo questa intervista ad Alice Orrù e i nostri approfondimenti su Bossy.

Ovviamente, dove si parla di sessismo nella lingua, ci sono anche critiche e obiezioni. Da chi adotta un atteggiamento strettamente conservatore e purista nei confronti della lingua italiana, chi benaltristicamente ritiene che i problemi delle donne siano altri, più urgenti e più importanti, fino a chi critica la leggibilità o entra nel merito di argomentazioni linguistiche, spesso senza alcuna formazione sulla materia.

Se i conservatori del linguaggio si renderanno conto da soli, col tempo, che tentare di frenare l’evoluzione della lingua equivale a lottare con i mulini a vento, il benaltrismo va invece smontato comunicando la consapevolezza del ruolo fondamentale che ha la lingua nella nostra società. Le donne hanno il diritto di occupare qualsiasi posizione desiderino, ma non solo: hanno il diritto di declinare la cultura professionale in cui operano, così come il titolo che viene loro assegnato, di modo che sia loro – e non venga semplicemente concesso né tantomeno la loro presenza in quell’occupazione venga considerata una parentesi, per cui non vale neppure la pena adeguare la terminologia che la definisce. Infine, la leggibilità è senz’altro una preoccupazione lecita e pressante, di cui vale la pena discutere per trovare soluzioni innovative e sempre migliori, premettendo però un interesse comune volto a includere donne e persone non binarie che, per troppo tempo, non hanno goduto di rappresentanza neppure nella loro stessa lingua.

di Jasmine Mazzarello, autrice di Bossy

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